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EHI, CRISTOFALO

Ah, Cristofalo
che segnava con il carbone le cantoniere
di vie e palazzi
a rischio di perdersi nella grande città
non è mai arrivato a destinazione.

Girava squieto ora non più rideva beffardo aveva vissuto molto
dentro e fuori così com’era venuto se ne andava sputacchiando
a destra e a sinistra prima però si mise a guardare il cielo
di buon mattino si faceva la croce come al solito rimaneva in silenzio
fermo davanti alla porta chiusa del Santissimo Salvatore
che cosa pensava questo scemo chiunque passava lo salutava
con la punta del naso sotto i baffi lo derideva ehi Cristofalo
lui non dormiva faceva figure con il carbone affrescava tutta la chiesa
di santi e diavoli sconosciuti scriveva pure fratelli attenti a non morire
di soldi stragi e psicofarmaci.

uno stato d'animo

LE ANIME PRESENTI

Anime giocano a Buela.
Entrano a nascondersi Manuele Margherita Cirivieddru Clementina.
Si intravede Vecchio seduto a terra in un angolo appartato.
Entra Cristofalu a cercarli, si accorge di Madre che dorme

Cristofalu -Chi belli carni,
chi belli capiddri

Clementina -Ni ricanusci?

Manuele -Cunta cunta,
chi munnu lassasti?

Margherita -Susiti, c’è to’ patri,
‘unn’u vo viriri a to’ patri?

Cirivieddru -Ti pirdisti?e bonu facisti
(esce)

Manuele -L’acqua camina
u cielu camina
e caminamu nuatri
tutti cuosi caminanu

Clementina -Nuatri
quannu vuatri ca siti vivi
rurmiti,
n’arruspigghiamu,
e chi facemu?…
(esce)

Vecchio -…nienti!

Manuele -(in proscenio)
Semu a stu munnu,.
er’è comu s’un ci fussimu…
A mia mi pigghiavanu pi scimunitu picchì rireva sempri…
io na’ me’ vita è statu sempri allegru,
a mia mi piaceva ririri e friscari…
puru quannu muriu me patri:
tutti chiancevanu…
puru quannu murivu io,
chiffà chianceva ?…
mi curcavu
mi fici a santa cruci
no ca manu, c’on mi putia catamiari,
cu pinsieru,
e aspittava…
e ora u viri cca,
allegru era
e allegru sugnu…

compare Clementina con berretto militare e treccia bionda.
entra Matteo con la premura di continuare a cercare “l’uscita”…

Cristofalu -(indicando Matteo)
Iddru è vivu,
ma è comu si fussi mortu,
iddru u sapi, ca vosi arristari cu nuatri…
si nesci, muori.
Io mi chiamu Cristofalu:
‘un ci rava cunfirenza a nuddru…

Anime sbattono pietre

…lassatimi parrari

Matteo -Prima Clementina c’arrivò prima ri tia

Cristofalu -Tu si’ vivu e ‘un ti po’ mmiscari!

Gaspare Cucinella, la grande maschera della drammaturgia palermitana se n’è andato all’età di 92 anni.

 

L’ IRRESISTIBILE PASSIONE

Il mio amico Gaspare Cucinella è una maschera teatrale indimenticabile, anche se non fosse mai stato “Aspanu”, lo struggente vagabondo compagno di “Binirì” nel “Pozzo dei Pazzi” di Franco Scaldati.

La maschera di “Aspanu”/ Gaspare, per dire che la vita-vita di Gasparino, così lo chiamiamo gli amici, è sul palcoscenico: il teatro è stato, è, il senso, la misura, il valore, il ritmo della sua vita.

“Fatemi almeno voltolare un sasso” scriveva Machiavelli, quando lo avevano relegato a S.Casciano, lontano da Firenze.

“Datemi un palcoscenico per recitare” potrebbe dire oggi il nostro Gasparino.

Oggi, Gaspare ha 90 anni, 90 anni che naturalmente pesano, ma se lo invitate a recitare, lui diventa “fanciullo”.

Una raccolta di poesie di Gaspare Cucinella del 2004 si intitola propriamente “Poeta ru Teatru”.

E dal teatro nasce la sua poesia, come un prolungamento, come un’estensione:

Gaspare, quando scrive, non cerca la “bellezza” delle parole, ha in mente il palcoscenico, e le sue poesie, un po’ come quelle di Buttitta, sono fatte e pronte per essere recitate, e hanno sempre un grande successo:applausi, consensi, complimenti, prossimi appuntamenti, ecc.:nelle scuole, nelle piazze, nei raduni che hanno motivazioni sociali. Anche tra gli amici, se capita.

Ho detto “valore sociale”, perché i componimenti di Gaspare , ironici, contestativi, di ripulsa di questo mondo, hanno un risvolto sociale verace, sentito, che nasce da una pulita sensibilità che lo faceva amico e poi cantore di Peppino Impastato.

Ripulsa, e non a caso nelle sue poesie troviamo spesso la parola “suonnu”(sogno), in contrapposizione alla parola “munnu” :munnu/suonnu.

In una delle sue composizioni che a me piacciono di più, “La fabbrica dei sogni”, dice:

 

Nta na fabbrica di suonna

Vogghiu iri a travagghiari

I patruna nun ci sunnu

Ca mi ponnu ncatinari

E mi mettui araciu araciu

Pigghiu i suonna silinziusu

Poi li stennu dilicatu

Nto linzuolu arricamatu

Non è il sogno inerte, onirico, è il sogno dell’arte, quel trasferimento trasfigurante che l’arte dà della realtà, anche la più dura, la più crudele.

Così Gasparino vive il teatro come un sogno, e così le sue poesie sembrano scritte per preservare quel sogno.

All’inizio ho usato la parola “fanciullo”, e qui la voglio ribadire.

Chi ha visto l’attore Gaspare Cucinella nell’interpretazione dei personaggi a lui più congeniali(penso anche ad “Aspettando Godot”), grotteschi, surreali, incredibili, può ben immaginare quello che sto dicendo.

“Fanciullo” nel senso che l’attore/poeta si spoglia del carico della quotidianità, per ritrovare dentro di sé la genuinità, la spontaneità, l’ ingenuità che solo i “fanciulli” posseggono. E, a chi li ascolta, trasmettono entusiasmo e tenerezza.

Ecco, ascoltare Gasparino recitare significa ritornare un po’ bambini, fare una pausa di entusiamo e tenerezza,.con in più la spontanea emotiva riflessione che nasce dall’evidente stortura di come questo mondo è combinato.

Ci viene in mente il Pascoli per il quale “la voce del poeta è la voce del “fanciullino” , per il quale non si può essere poeti, se non si ritrova dentro di sé il “fanciullino”.

Il teatro di Franco Scaldati, che qui ricordiamo con ammirazione e affetto, ha certamente trovato nella “maschera” di Gaspare Cucinella l’espressione più compiuta del suo immaginario poetico, il personaggio più intrinsecamente e visceralmente poetico.

Gaspare, come attore, non ha da pretendere di più, è quello impresso indelebilmente nella nostra memoria.

Come poeta, ancora ci aspettiamo da lui tanta bella poesia.

 

NICOLA LO BIANCO

 

 

 

 

 

Intervista

 

Giusi Bosco intervista Maricla Di Dio

autrice di

DONNE DI SABBIA

Introduzione

La scrittrice Maricla di Dio Morgano vive a Calascibetta (Enna) e appartiene ad una famiglia di artisti, infatti il padre era scrittore e drammaturgo, la madre attrice della Compagnia Contoli, che rimase attiva fino ai primi del Novecento. Maricla più che la recitazione ha amato la scrittura e nonostante i successi teatrali ha preferito dedicarsi alla letteratura.

È autrice di diversi romanzi: “L’ultimo giorno d’estate”, “Il respiro del vento”, “Lena”, “Dalla parte del torto”, “L’isola”, e ha ricevuto numerosi premi letterari. Molte sue opere sono state recensite da personalità di spicco del mondo culturale: Vincenzo Guerrazzi, Sveva Casati Modigliani, Rosa Alberoni, Catena Fiorello e tanti altri.

Con l’ultimo romanzo “Donne di sabbia”, l’autrice ha raggiunto una maturità espressiva riuscendo ad analizzare con grande capacità introspettiva i personaggi, mettendo in luce i vari recessi dell’animo umano. Ma diamo a Maricla di Dio Morgano la possibilità di parlare del suo nuovo romanzo con questa intervista.

 

Giuseppina Bosco:

D: Nei romanzi in cui l’io narrante ripercorre le tappe di un dramma personale, incentrato sul rapporto madre-figlia, il coinvolgimento emotivo è inevitabile, soprattutto se chi narra deve fare i conti con il più tragico degli eventi: il coma vegetativo della propria figlia (Carla) a causa di un incidente . È su questa vicenda che si apre il romanzo di Maricla di Dio Morgano, “Donne di sabbia”. Il titolo oltre a sottolineare la diversa dislocazione geografica dei personaggi femminili, i quali hanno vissuto nelle città della costa africana (Egitto) attraversata dal deserto,  potrebbe connotare la fragilità della condizione umana?

 

Maricla di Dio:

R: La sabbia è sinonimo di aridità. Ma nelle profondità del deserto, scorre acqua. L’apparente aridità è un tema fondamentale in questo romanzo, legato soprattutto al personaggio di Sonia (ma non solo). L’incapacità di esternare emozioni e sentimenti è una prerogativa di questa donna dalla vita non comune ed è la motivazione dalla quale scaturiscono i sensi di colpa che danno spessore all’intero tessuto narrativo.  La pluralità del titolo in “donne” non è uno sterile riferimento a madre e figlia, ma l’estensione all’intero universo femminile e alle sue infinite sfaccettature e problematiche.

 

  1. Bosco:

D:  Il personaggio di Sonia è ben delineato nella sua complessità: è una donna che lotta per mantenere il suo fragile equilibrio, messo a dura prova dalle situazioni della vita e soprattutto dal rapporto problematico con la figlia. Quanto è presente l’autrice nel carattere della protagonista del romanzo?

 

  1. Di Dio

R: Io e Sonia siamo diverse caratterialmente. Mentre le vicissitudini che riguardano il mio personaggio hanno plasmato una donna fragile e insicura, le mie vicissitudini, i grandi dolori della vita, le prove, le delusioni, hanno determinato una certa fermezza. In Sonia ho trasferito comunque cenni di un personale disagio subito in seguito a un capovolgimento del mio vissuto, scaturito nel momento in cui ho dovuto identificarmi con un luogo fisso di residenza. L’angoscia del senso di Appartenenza e Identità che tormenta Sonia e ne determina tutta la complessità del suo essere donna, ha riferimenti personali.  Il mio felice mondo infantile e adolescenziale si è svolto nel cerchio di una straordinaria e inconsueta famiglia (provengo da intere generazioni di attori che con le loro Compagnie di prosa, giravano tutto l’anno in lungo e in largo l’Italia). Nessuna origine territoriale ha disciplinato la prima parte della mia di vita. Ero (eravamo) totalmente estranei a qualunque concezione di appartenenza.   Solo mio padre vantava origini “normali”, provenendo da una famiglia siciliana di piccoli tenutari da cui fuggì, lasciando gli studi, per rincorrere un ambizioso obiettivo: diventare un attore. L’incontro con la Compagnia di prosa di mia nonna, fu fatale. Raggiunse i suoi sogni e si innamorò di mia madre (donna di straordinaria bellezza e bravura). Quando mia madre in seguito a dolorosi eventi culminati con la morte di mio padre, ha scelto stoicamente di lasciare il teatro e sciogliere la Compagnia interrompendo l’antichissima tradizione artistica e ritirandosi in Sicilia (unico posto in cui esistevano radici e proprietà immobiliari), la nostra vita è stata catapultata in una realtà lontanissima da quella in cui avevamo da sempre vissuto. Non è stato per niente facile inserirsi nella piccola, angusta ed emarginata realtà di un mondo colmo di consuetudini come quello di un piccolo paese del centro Sicilia. Non è stato facile riconoscerne le peculiarità, identificarsi in esso.  Mia madre non ci ha neppure provato, chiudendosi in casa. Noi ragazzi dovevamo tessere la nostra vita cominciando un percorso sconosciuto e astruso. Ci sono voluti anni e anni…

Adesso vivo serenamente in questo arroccato paese. Ho imparato ad amarlo e  ad amare la mia Sicilia e se “l’identificazione” non è mai totalmente avvenuta per complessi misteri genetici, non ha più importanza. Non cambierei questo piccolo paese per nessun altro al mondo.

 

  1. Bosco:

D: La storia narrata fin dalle prime pagine richiama alla mente un altro romanzo: “Paula” di Isabel Allende. Ho riscontrato sul piano psicologico la stessa angoscia di una madre che tenta di comunicare con la figlia in coma per una incurabile malattia, ricordando i momenti più intensi della loro vita e sperando in un miracoloso risveglio. Anche se in Paula l’autrice unisce il dolore per la malattia della figlia ad un’altrettanto dolorosa esperienza: il colpo di stato di Pinochet del 1973 e l’uccisione di Salvator Allende, che ne segnano la vita. Un’altra differenza consiste nel genere narrativo. Se il romanzo dell’Allende è costruito come un diario autobiografico, “Donne di sabbia” rivela la struttura di un giallo. Il lettore deve cogliere alcuni  indizi nei vari capitoli del libro per trovare il filo che unisce la storia. Condivide tali parallelismi?

 

 

  1. Di Dio:

R: Ho letto Paula tanti anni fa e non ho voluto rileggerlo durante la stesura del romanzo, (come non ho voluto leggere altri testi che trattavano la stessa amara realtà (come quello recente su Eluana Englaro), per non essere troppo coinvolta e influenzata da sensazioni ed emozioni realmente vissute sulla pelle degli autori.  “Donne di sabbia” è pura invenzione. Nulla, dal punto di vista prettamente “umano”, che possa confrontarsi alla straziante partecipazione della Allende e del padre della giovane Eluana.

La struttura narrativa di Paula- per quanto io possa ricordare- è sicuramente molto diversa. Il mio romanzo come Lei ben dice, a differenza del testo della Allende, non è un diario. E’ stato concepito come un percorso storico-esistenziale che elabora le tipiche caratteristiche del racconto. Non mi sorprende del tutto il riferimento alla struttura di un giallo. Anche il prof. Grimaldi ha iniziato la premessa del romanzo con la frase: “Si legge come un thriller.” Forse è insito, nel romanzo, una logica giallistica che riconduce un passo dopo l’altro – in percorsi necessari e strutturati-  a verità e conclusioni ineluttabili, seppure in un contesto narrativo lontano dal classicismo giallo. Il tutto, comunque, non è una scelta programmata, ma casuale (per quanto possa essere “casuale” un indirizzo narrativo).

 

 

  1. Bosco:

D: Alla base dei conflitti tra Sonia e Carla vi è senza dubbio la loro distanza generazionale: quest’ultima non ha mai accettato la duplicità della madre, divisa tra l’atavica rassegnazione delle donne meridionali,  la mancanza di volontà nelle situazioni e la dinamicità di una donna moderna. Sonia, in realtà, ha avuto l’esempio di una madre forte e determinata come quelle del Sud Italia: lei era nata a Locri, in Calabria, terra intrisa di cultura greca e araba al contempo. Sonia nasce ,invece,nella casa colonica di Gars Garabulli, un villaggio libico, insieme ai suoi fratelli, sostenuti dalle  forti braccia materne e dipendenti dalla sua saggezza.  È forse la determinazione materna ad indurre i propri figli ad accettare di vivere in quella terra straniera, in funzione di un futuro migliore, poco comprensibile ad una generazione come quella di Carla?

 

  1. Di Dio:

R: Credo che ogni generazione abbia conflittualità in famiglia. E’ inevitabile. Ma la figura di Anna Greco, madre di Sonia, è del tutto diversa da Sonia stessa e diverse sono le dinamiche educative.  Mentre   Anna   è la roccia alla quale tutta la famiglia si aggrappa, Sonia vive un ruolo condizionato dagli eventi senza la forza e la determinazione propria della madre. L’educazione che cercherà di impartire a Carla è plagiata dalla conflittualità e dalla nebulosa consapevolezza del proprio “io” nel quale non riesce a scindere i ruoli che la vita stessa impone: donna-madre-moglie. La sua incapacità scaturisce sempre dalla confusa “appartenenza” (origine italiana-nascita e infanzia in Libia dove assimila e subisce il fascino del Nord Africa- trasferimento in Egitto in seguito agli eventi bellici del ‘47 e infine –già donna e madre- l’approdo in Italia). “Ero senza un’identità precisa……”

 

  1. Bosco:

D: Le descrizioni dei luoghi vissuti si traducono in immagini di potente realismo, con uno stile lirico ed evocativo di atmosfere, soprattutto quando la protagonista descrive  la città del Cairo, dove si trasferisce: <<L’Egitto aveva qualcosa della Libia, gli stessi odori, gli stessi tramonti. Scoprimmo un po’ alla volta tra stenti, fame, stracci, baracche, suk, fogne a cielo aperto, urla di bambini cenciosi, piaghe di malati e puzze, le infinite meraviglie di una terra colma di misteri.>> .Questo modo di scrivere  ha come modello Cesare Pavese de “La casa in collina” o di “Paesi tuoi”? Si nota anche l’essenzialità e la semplicità della sintassi, con periodi breve e molto fluidi nella forma. È  una particolarità della sua scrittura?

 

 

  1. Di Dio:

R:  Amo Pavese. Sono cresciuta con “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che ha innestato in me il profondo interesse per la poesia e ho letto infinite volte “Prima che il gallo canti” “La luna e i falò” e altre opere del grande e sfortunato scrittore. Restano tra le più care letture giovanili che hanno lasciato in me il fascino della scrittura e l’incanto del “racconto” ma non ho mai avuto un modello che abbia determinato il mio stile. Condivido però il pavesiano simbolismo della campagna, la ricerca di radici, il mito della solitudine. La mia scrittura è piuttosto l’esito di un’infanzia trascorsa tra testi teatrali e letteratura. Una caotica, affascinante miscela di storie e personaggi in un vortice di sensazioni imbrigliate nella conoscenza. Da ogni autore ho attinto qualcosa, da ogni opera ho inconsciamente conservato embrionali essenze.

 

 

  1. Bosco:

D: Sonia è una donna che matura la sua affettività dopo il matrimonio con un archeologo italiano, che sposa perché è un’opportunità da non perdere. La personalità dell’uomo viene analizzata attraverso il filo della memoria, a cui lei si aggrappa per comunicare con la figlia, sperando in un suo risveglio. In questa sequenza del romanzo Sonia rievoca le lunghe assenze di lui come quella volta in cui mancò per più di un mese dopo l’incarico ricevuto per la salvaguardia del tempio di Ambu Simbel dall’inondazione della diga di Aswan. Quanto la professione del padre condizionerà le scelte lavorative della figlia, sempre in viaggio per il mondo, e la sua instabilità psichica?

 

  1. Di Dio:

R:  La figura del padre, per Carla, (al di là di architetture edipiche freudiane), colma le lacune del rapporto madre-figlia. La professione avventurosa e per certi versi misteriosa dell’uomo, esercita un fascino inevitabile sulla complessa personalità   di Carla che-in ogni caso- soffre enormemente per le eccessive assenze del padre.  L’amore per l’archeologia della bambina finirà quando questa provocherà la morte dell’uomo, ma resta in lei l’ossessivo interesse per la conoscenza del mondo. L’instabilità psichica scaturisce dall’infanzia inquieta, carente di riferimenti affettivi e si acuisce con la brutalità degli eventi propri della professione scelta: corrispondente di guerra.

 

  1. Bosco:

D: Il tempo storico nella narrazione parte da quello del regime fascista in Italia e della colonizzazione della Libia del 1934, con riferimenti alla guerra del ‘43, fino ai nostri giorni. Anche la perdita delle colonie italiane del 1947 s’intreccia con le vicende dei personaggi e vi sono anche accenni alla rivoluzione del 1959, quando Gheddafi prese il potere e rese indipendente la Libia. Perché invece il riferimento al presente non è molto contestualizzato?

 

  1. Di Dio:

R: Le vicende politiche italiane non coinvolgono Sonia e non ne condizionano la vita. La scoperta dell’Italia è un fattore emozionale puramente estetico. L’identità territoriale di Sonia non si rivela come aveva sperato, con il suo arrivo nel suolo di origine. A differenza degli eventi vissuti in Libia che hanno determinato la stessa esistenza della famiglia, l’Italia non porta sconvolgimenti. Lei non ne interiorizza gli eventi socio-politici, non segue le dinamiche di un territorio che in effetti non sente totalmente suo. Continua a   il suo vivere “in superficie, nella schiuma delle cose”.

 

  1. Bosco:

D: Molti personaggi secondari, dai beduini del deserto, ai pastori, alle donne dei villaggi, con i quali Sonia e Carla si relazionano, fanno parte di un mondo diverso, con tradizioni, rituali, cultura, lontani da quelli occidentali. Ad esempio Zira è una contadina in cui è contenuta tutta la saggezza e al contempo tutta la rassegnazione delle donne arabe, considerate alla stregua delle bestie, schiavizzate prima dal padre e poi dal marito; condizione inaccettabile per una mentalità emancipata e moderna come quella della protagonista. La figura di Zira però è quella di una grande donna, dotata di un’incommensurabile forza morale, il cui ricordo costituisce un arricchimento interiore e un insegnamento di vita. Nel costruire questo personaggio, si è ispirata  ad esperienze personali?

 

  1. Di Dio:

R:  Amo l’Africa e ho visitato molti suoi Paesi. Sono una viaggiatrice che “ruba ciò che vede e sente. Mi intrufolo nella vita degli altri, cerco di carpirne i desideri, le speranze, le difficoltà e le gioie. Questo mi è molto servito nell’elaborare romanzi e novelle anche se la mia esigenza non è professionale, ma puramente istintiva.

-Ho conosciuto diverse donne che potrebbero assimilarsi a Zina. Rappresenta  l’anima della donna araba. Ne incarna tutta la fragilità e la forza, in un    chiaroscuro di difficile comprensione per la nostra civiltà, ma di profondo spessore seduttivo.

 

 

  1. Bosco:

D: A proposito della narrativa dei grandi scrittori siciliani, quali Pirandello, Tomasi di Lampedusa e altri, Sciascia ha introdotto la categoria di “sicilianità”, che si rivela nella problematicità dei personaggi descritti, sempre alla ricerca di un “altrove” o di una possibile identità. In un passo del romanzo, e precisamente in uno dei tanti soliloqui di Sonia, c’è questa  amara riflessione: <<Ero senza un’identità precisa: italiana, libica, egiziana […] io non ero una, ma tante, nessuna.>> In che modo la sicilianità è presente nella scrittura di Maricla di Dio Morgano?

 

 

  1. Di Dio:

R: Tra i moltissimi autori con i quali ho condiviso infanzia e adolescenza, Pirandello era il mio idolo. La sicilianità è sicuramente presente in molti testi ambientati in Sicilia (Lena, L’Isola, La Siciliana, La coda del diavolo, Donne… e una moltitudine di novelle.) In “donne di sabbia” l’ambientazione e i profili dei vari personaggi sono molto lontani da quella che potrebbe essere la mia ormai dichiarata sicilianità, ma se ne riscontra la presenza proprio nel nucleo del racconto, ovvero, il tema dell’altrove nel paradosso fuga-ricerca esistenziale, ed è infine, dichiaratamente pirandelliana, la sintesi finale: l’allontanamento dalla realtà e il progressivo accostamento alla follia.

 

  1. Bosco:

D: La conclusione del romanzo sembra aprire le porte alla speranza e rimanda ad un “altrove” come luogo non definito, in cui finalmente Sonia e Carla possano incontrarsi e restare per sempre insieme. Quale messaggio in realtà l’autrice ha voluto trasmettere ai suoi lettori?

 

  1. Di Dio:

R: Vi sono dolori che la fragilità umana non supera e non trovano via d’uscita se non in quella sfera (maledetta o sublime), detta follia. La follia potrebbe essere il luogo dove rifugiarsi e ritrovarsi quando ogni altra speranza è vana. Un’opzione alla morte fisica (che Sonia rifiuta per la figlia, non accettando la possibilità dell’eutanasia). Cosa resta, quindi, se non   la follia   che già serpeggia nella povera mente di questa madre stremata da una inutile speranza, da anni d’insonnia, dall’abbandono di se stessa?  Follia come unico, estremo rifugio. Il mondo estraneo a ogni realtà nel quale portare con sé la sua creatura “ti porterò in un posto colmo di luce. E’ una strada facile. Dritta…  Ecco il cerchio magico dove tutto è possibile. Anche trovare un’assurda, impossibile felicità.

 

GIUSI BOSCO

 

 

 

 

 

 

 

BELLA PROVA DEL “GRUPPO TEATRO LIBERO” DI TRABIA

Ieri sera al Teatro Eden di Termini Imerese, con la messinscena di Uomini sull’orlo di una crisi di nervi, di Galli e Capone, per la regia di Diego Gattuccio, il Gruppo Teatro Libero di Trabia ha dato un’ulteriore prova di saper confrontarsi con testi che non siano il solito repertorio dialettale dei Martoglio o dei Capuana.

Il Gruppo si conferma, nell’ambito del teatro amatoriale, come una realtà che ha tutti i numeri per un salto di qualità registico ed attoriale.

Il testo, lo dobbiamo pur dire, risulta un po’ datato perché fondato su facili e ormai superati luoghi comuni del rapporto uomo/donna, come ad es. le piccole insopportabili manìe delle mogli o le inevitabili corna del marito.

In ogni caso, gli attori hanno saputo rendere al meglio il senso e lo spirito della commedia brillante, che prende spunto da una presumibile crisi del maschio nel rapporto con la donna/ moglie/fidanzata. Il tutto in chiave comica con situazioni di sorridente ironia.

Qui vogliamo sottolineare l’impegno registico ed attoriale, lo scrupolo artistico, con il quale il Gruppo si presenta a un pubblico che tanto lo apprezza e lo segue.

Per non dire del risvolto culturale che una tale iniziativa da anni assume in rapporto a una piccola cittadina che, tra l’altro, a pochi kilometri ha “in concorrenza” teatrale le offerte di una grande città.

Chi si occupa di teatro sa che non è facile di questi tempi riuscire a portare in teatro tanta gente, vedere una sala piena, dove qualche spettatore si contenta di seguire in piedi, dove si notano famiglie intere, giovani e giovanissimi che seguono con viva partecipazione.

C’è, ripetiamo, l’impegno di tutta la Compagnia, in scena e fuori scena, ma quello che più convince è l’abilità interpretativa degli attori, tutti protagonisti:Massimo Vallelunga, Filippo Gattuccio, Francesco Rizzo, Francesco Terrasi, Daniele Sanfilippo.

Una menzione particolare vogliamo dedicare all’unica donna/attrice in scena:

Amanda La Barbera che ha tracciato un profilo molto convincente della bella seducente.

La scenografia, come sempre ben curata anche nei particolari, è di Ciccio Di Vittorio.

Divertimento, applausi, soddisfazione.

A nome di chi ha visto lo spettacolo, mi sento di dire:grazie della bella serata.

NICOLA LO BIANCO

Alla ricerca della scuola perduta

Caro Amico,
Mi hai chiesto per telefono, forse perché sai della mia passione per l’insegnamento, di scrivere qualcosa sulla « scuola dei miei sogni ».
Ti rispondo in forma epistolare, come a farti una confessione, come a rivolgermi a un buon amico che ancora crede nella bontà del ‘sogno’ suo e degli altri, che non si lascia sopraffare dal ‘realismo’, che spesso non è altro che un camuffamento della rassegnazione nella miseria culturale e morale e dell’opportunismo.
« Nessun maggior dolore, dice il Poeta, , che ricordarsi del tempo felice nella miseria », nella miseria culturale e morale in cui è caduta la scuola italiana, in un modo, temo, irreversibile, almeno in tempi brevi.
La scuola, come sai, è un organismo delicatissimo, sensibile, muta in relazione ai mutamenti di costume, di valori, delle finalità sociali alle quali è chiamata a rispondere.
Ma in ogni epoca, sotto qualunque regime, dall’antica Grecia alle moderne democrazie, la scuola si costituisce e trova la sua intrinseca motivazione in due fondamenti imprescrittibili, senza i quali essa non è più tale :come crocevia di passato/presente/futuro ;come spazio d’incontro, fisico ed umano, tra vecchia e nuova generazione, in un rapporto di presumibile fiducia tra docente e discente.
La scuola è, dovrebbe essere, memoria, sintesi cioè ed interpretazione del passato ;è presente, sguardo attento e perspicace sulla realtà ;è futuro, istanza critica del presente e prospettiva individuale e collettiva di possibile miglioramento, propensioni queste ultime che sono proprie delle nuove generazioni.
Quella che, con termine ingannevole, chiamano da decenni ‘riforma della scuola’, ha frantumato questi principi basilari e con essi la dialettica culturale, il dialogo adulti/giovani, abbandonando alla deriva un’istituzione strategica per l’avvvenire e l’identità di un popolo.Come dire che la scuola italiana è stata svuotata della sua funzione primaria :quella educativa didattica, quella precipuamente culturale.
Ma bando alle tristezze, lasciamoci soverchiare dal , che è anche testimonianza morale e perdurante speranza.
La scuola dei miei sogni, caro Amico, è serena, gioiosa, palpitante di vita, ricca di affettività e di vivace creatività.Dove ti può capitare che gli alunni abbraccino il professore perchè lo amano, lo riconoscono competente ed esperiente, figura che nel quotidiano della vita scolastica non tradisce le loro aspettattive;oppure, che il professore si pone in attento ascolto, prende in seria considerazione i dubbi, le domande, le eventuali fanciullaggini, o anche le “confidenze” esistenziali tipiche dell’età adolescenziale.
Questo clima di simpatia umana ed intellettuale è parte importante, deve essere parte integrante, ma non decisiva delle finalità educative.
Il ruolo docente/discente va nettamente distinto perchè il rischio è quello di scadere in un sentimentalismo spicciolo, che nel tempo si rivela sciocco, inutile, dannoso.
Io vedo, al contrario, un docente come guida discreta, sensibile, fortemente consapevole della grande responsabilità nei riguardi della crescita anche sentimentale dei giovani, per cui sa essere di volta in volta severo o indulgente, irremovibile o comprensivo in relazione alla funzione pedagogica primaria e prioritaria :quella di educare alla riflessione, alla conoscenza di se stessi, al gusto per le cose belle e buone, al senso di appartenenza ad una società dalla quale ciascuno riceve, alla quale ciascuno responsabilmente deve dare.
Per dirla in sintesi, e sull’esempio della scuola di Barbiana di don Milani, del quale, tra l’altro, si ricordano le solenni sfuriate ad ogni mancanza d’impegno, i giovani vanno educati a considerarsi portatori di diritti e di doveri, quelli che fondano l’uguaglianza, la dignità, il vivere civile tra gli uomini.
Non vorrei, caro Amico, dietro queste ultime affermazioni, essere frainteso, come se stessi parlando di una forma, ridicola e praticamente inutile, di sovrapposta educazione civica :il fulcro della scuola che io sogno è lo studio, la ricerca, l’entusiasmante scoperta, quella che emerge, nel tempo e nello spazio, da altre culture, da altre e varie esperienze di vita, da altri valori o disvalori, lontani o vicini, coi quali instaurare un confronto, sui quali interrogarsi, dai quali assumere o rifiutare, a seconda delle inclinazioni personali, pensieri, sentimenti, stili di vita.
Dai quali, in ogni caso, trarre la convinzione che per capire meglio se stessi, il proprio ruolo, il mondo in cui si vive, è necessario guardare agli altri, a ciò che è diverso, ad averne conoscenza e comprensione.
La scuola dei miei sogni, caro Amico, lo confesso, è un tempio, da dove è escluso tutto ciò che è profano, tutto ciò che non è compatibile o che distrae dall’impresa oltremodo difficile della formazione delle nuove generazioni :una scuola composta, raccolta, rassicurante, ma disposta ad ironizzare su se stessa, allegra, gratificante di risultati ;dove poi, all’occorrenza, sarebbe l’irruenza dei giovani a violare questo clima.
Ed anche questo deve essere accolto come parte non secondaria della vita scolastica.
E l’insegnamento, confesso anche questo, dovrebbe essere una forma di sacerdozio, una dedizione, un offrirsi interamente non solo come docente, ma anche come uomo, il quale fa partecipi i suoi allievi di tutto quello che sa o che mano a mano apprende, e non esclude le possibili sue emozioni di fronte ad una poesia bella e profonda.
Come vedi, ti sto parlando di un rapporto maestro/discepoli, dove discepolo significa ascoltare, accogliere, verificare, discutere, fare;dove maestro significa migliorare se stesso, sbagliare e correggersi, considerare preziose le singole personalità dei discepoli, importantissima la funzione alla quale ha scelto di dedicarsi.
Ne nascerebbe, tra maestro e discepoli, un’amicizia perdurante nel tempo, che non fa dimenticare, che potrebbe fare dire al discepolo, dopo anni, al di là delle singole materie :« tu mi hai insegnato tante cose che mi mi sono state utili nella vita mia personale e sociale».
Nella scuola dei miei sogni, sul frontone dell’edificio, dovrebbero essere incise le parole di un grande maestro dell’Ottocento, Francesco De Sanctis :
»La scuola sia come un laboratorio, dove tutti, maestro e discepoli, siano compagni nel lavoro, e il maestro non spieghi solo e dimostri, ma ricerchi insieme con loro, sicchè attori siano tutti e tutti siano come un solo essere organico animato dallo stesso spirito ».
NICOLA LO BIANCO

Lo specchio

Se l’acqua è sporca, noi siamo sporchi,
se l’acqua è inquinata, noi siamo inquinati,
se l’acqua e il mare sono cloàca di discariche, noi siamo cloàca,
se il mare che bagna le nostre coste, è disseminato di cadaveri,
noi siamo morti dentro.

NICOLA LO BIANCO

Nicola Lo Bianco

ETTY HILLESUM

ETTY HILLESUM (1914-1943)

LA RIVOLTA DELL’ANIMA

Giovane ebrea olandese morta a 29 anni nel campo di concentramento di Auschwitz, dopo avere trascorso un anno, dall’agosto del ‘42 al settembre del ’43, a Westerbork, il campo di “smistamento” dove gli ebrei olandesi venivano ammassati in attesa della deportazione nei campi di sterminio.
Dell’esperienza nel campo di Westerbork, Etty Hillesum ci ha lasciato un DIARIO ’41-’43 e le LETTERE ’42-’43, scoperti e pubblicati negli anni ’80, oltre alla memoria dei sopravvissuti che la ricordano come una “personalità luminosa”.
Per comprendere l’eccezionalità e l’esemplarità della figura di questa giovane intellettuale(laureata in giurisprudenza e studiosa di filosofia )
occorre immaginare il luogo dove, pur avendo la possibilità di sottrarsi e fuggire, ella volle dare prova di sé, consapevole peraltro che quell’anno ’42-’43 quasi certamente sarebbe stato l’ultimo della sua vita:”Immaginate la ressa su quel mezzo chilometro quadrato a Westerbork, quasi come attorno all’ultimo relitto di una nave a cui si aggrappano migliaia di naufraghi sul punto di annegare…”.
Non è solo la totale dedizione ad alleviare, lei vittima tra le vittime, le paure e la disperazione di quegli esseri umani travolti, che ne fanno una maestra spirituale.
E’ il senso e il valore che Etty Hillesum ha dato a quell’esperienza in quelle tragiche condizioni.
Quando parliamo di maestri spirituali intendiamo non soltanto gli atti, le azioni, per le quali quegli uomini sono ricordati come giusti, ma anche, e soprattutto, le nuove vie che essi hanno tracciato con comportamenti e princìpi che l’umanità riconosce come degni di essere perseguiti per conquistare superiori modi di vivere.
Che ci insegna Etty Hillesum?Perchè è attuale il messaggio che ci ha lasciato?
Tra gli orrori del campo e la malvagità degli aguzzini, Etty Hillesum scopriva che il nemico primario non è fuori, ma dentro di noi che non sappiamo preservare quel “pezzetto di anima” che ci metta al riparo dall’abbrutimento.
E’ un impegno quotidiano, una ricerca assidua, una battaglia con se stessa, per trovare al fondo della propria anima, nel silenzio interiore che momentaneamente esclude la realtà, “nella chiusa cella della preghiera…la parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro:Dio a Dio”.
Capire quanto di superfluo ingombra la nostra esistenza, ridursi alla semplicità, percepire con che tutti siamo parte di una stessa trama spirituale, per cui il cammino dovrebbe essere quello di “contribuire a disseppellire Dio dai cuori devastati di altri uomini”.
Il Dio che Etty ha scoperto dentro di sé in quelle circostanze estreme, non è l’Onnipotente, ma un Dio fragile, inerme, anch’Egli bisognoso di aiuto di fronte all’inarrestabile dilagare del male, e perciò”se Dio non mi aiuterà, allora sarò io ad aiutare Dio”.
Affermazione di grande portata che capovolge il comune senso religioso:non Dio deve cercarmi e trovare me che inerte rimango in attesa del suo aiuto, ma io devo impegnare tutte le mie forze spirituali per vivere più interiormente, per far emergere Dio come insostituibile presenza di amore.
“Aiutare Dio” significa perciò non incolparlo di colpe che sono proprie degli uomini, significa caricarsi la responsabilità del male e del dolore presenti nel mondo.
Il grande, tragico errore che perverte l’umanità, sembra dirci Etty Hillesum, è quello di trovare sempre e comunque colpevole l’altro, mai noi stessi.Guardiamo agli altri ben volentieri di traverso, e siamo indulgenti, ci dimentichiamo facilmente di interrogare i nostri comportamenti.
Ma invero”il marciume che c’è negli altri, c’è anche in noi>, occorre ammetterlo con semplicità, e poi <raccoglierci in noi stessi e strappare via il nostro marciume”.
Tra le macerie della guerra e lo scempio delle persecuzioni, la giovane Etty coglie un aspetto di questa nostra storia contemporanea che persiste e, se possibile, si aggrava:”Lo spirito viene dimenticato, s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolo”.
E’ ciò su cui bisogna premurosamente vigilare.
Accade, è umano sentirsi sopraffatti, avere la sensazione di ”sfasciarmi” sotto un peso enorme, ma non c’è alternativa, la soluzione non è fuori, ma dentro di noi:”Non credo si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza prima aver fatto la nostra parte dentro di noi…dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove…”
Scelte politiche, meccanismi economici, istituzioni, non debbono farsi complici dell’orrore, debbono assennatamente contribuire ad elevare, ma tutto ciò potrebbe rivelarsi inutile, se non facciamo emergere in ciascuno di noi a riflettersi nell’altro”la parte più profonda e più ricca…la sorgente …dove c’è Dio”, e con questo “barlume di eternità” dialogare, sempre, sino a comprendere che “una pace futura potrà essere veramente tale…solo se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo;se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore…”.
Questo “spirito che avvizzisce” che cos’è, se non un rinchiudersi torvamente in se stessi, un escludere tutto ciò che non è “Io”, un disperato avvilimento dell’animo che soli ci trova e soli ci lascia.
“Siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli”.
Ecco, nel regno dell’odio e della violenza senza perché, di cui anche oggi siamo testimoni, ad Etty Hillesum si è rivelato che si può vivere di Dio, del suo amore e della sua felicità in qualsiasi condizione:”Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio”, anche se “la gente di Westerbork non ti offre molte occasioni di amarla”.
E’ un punto fondamentale per comprendere la lezione che ci lascia Etty Hillesum.
La risposta che si può dare anche di fronte alla terribilità del male, quella che veramente ci salva e ci riscatta, è la risurrezione in noi di quella parte secolarmente obliata che è la vita come libertà dell’anima, come anima che protegge al di sopra delle cose del mondo, ma non al di fuori:”…siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato…ora che non voglio più possedere nulla e che sono libera, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa…”.
A partire da questa “scintilla divina”, da questa “rivolta dell’anima”, Etty Hillesum può affermare:”Io non odio nessuno, non sono amareggiata:una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito…;alla sera tardi …dal mio cuore s’innalza sempre una voce e questa voce dice:-la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo-.”.
Questo mondo completamente nuovo Etty lo ha già trovato dentro di sé e vorrebbe trasmetterlo agli altri, al di fuori del campo, al di là del presente, ma “l’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi”.
Per far sorgere i “tempi nuovi” non è necessario essere eroi o santi.Etty sa che sono pochi quelli disposti a sacrificare se stessi.
Ma non è questo che si richiede.Basterebbe ben ponderare sugli errori commessi, sulle sventure subìte, proporsi di non degenerare “in bestie come lo sono loro”, far diventare matura coscienza le sofferenze patite:”Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile”.
Possiamo trovarci di fronte a un terribile Moloc, sanguinario e distruttivo, ma la vera forza, quella che in nessun modo può essere scalfita, è ciò che costruiamo dentro di noi nell’affrontare la realtà:
“A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzettino di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi.
Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere”.
Sono proposizioni che, tradotte in azione politico-sociale, si inseriscono nell’alveo dell’attuale movimento della nonviolenza, le cui radici affondano, insieme ad altri grandi maestri spirituali, nella testimonianza morale di Etty Hillesum.
L’abisso apertosi con gli orrori della Seconda guerra mondiale è ancora sotto i nostri occhi, e ci richiama ancora a una risposta spirituale, a “un’alternativa forte e luminosa con cui si possa ricominciare daccapo in un luogo del tutto diverso”.

Il nostro Buon Natale, nel ricordo di Etty Hillesum, va a tutti i perseguitati, ai bombardati, ai torturati, agli schiavi, agli internati, ai maltrattati, che ci sono, sì ci sono, basta aprire gli occhi.

NICOLA LO BIANCO

SENZA DI TE, LIA

SENZA DI TE LO VEDI STIAMO QUI

Non era questo che ci aveva promesso il tuo cuore
di abbandonarci così come anime in pena siamo di colpo
tramortiti in piedi di fronte al tuo corpo immobile
non riusciamo a convincerci facciamo e rifacciamo
i conti della vita non tornano i pensieri
dei buoni rimangono senza risposta.

Intanto come che sia la vita continua (è vero)
ma il fatto è che tu fra noi più non ci sei
il fatto è che solo nella memoria ora si assommano
le tue rigogliose parole le ragioniamo ad una ad una
adesso come allora dacci un segno che non tutto è perduto
senza di te lo vedi stiamo qui a balbettare l’assurda
preghiera di ritrovarci insieme scegli qualunque giorno
di primavera è tutta fiorita la nostra mimosa ci ascolta
d’estate i fichi sono maturi balliamo i cani sono felici.

Un inverno mai visto a Erbavusa tutto è cambiato
veniamo lungo la strada pronunciamo in silenzio
il tuo nome si posa benefico sopra ogni cosa giriamo
lo sguardo piangiamo i nostri giorni con te sono finiti
i gelsi di primo mattino il pane caldo condito sul terrazzino
la vite germoglia la trama d’amore dei tuoi pensieri
ha messo discrete radici per fare più bella dentro di noi
questo fantasma di vita insensata senza risposta ai tanti
perchè proprio quando dovevi raccogliere i frutti ci lasci
a vaneggiare aspettiamo ad accendere il fuoco che viene Lia
sì sì aspettiamo
sino alla fine dei nostri giorni
e così sia.

NICOLA LO BIANCO

A CHE SERVE LA POESIA

Insomma, la poesia, per tanti motivi, è l’ “oggetto” che meno si presta al consumo, non fa “divertire”, non si vende, non dà profitti(rari gli editori che investono qualcosa nelle opere di poesia), non “spiattella i fatti” già belli pronti e confezionati, non si presta alla propaganda…insomma, a che serve?a chi può interessare?
Non “serve” a niente, e questo è il suo limite, ma può interessare tutti, e questa è la sua inespugnabile forza, che spiega, tra l’altro, perché la poesia da sempre ha accompagnato le vicende umane.
da Nicola Lo Bianco, A che serve la poesia, inedito

LAMENTO RAGIONATO, II

II

Niente, la mattina mi alzo e mi faccio la croce
la sera lo stesso mi faccio la croce e dico
– mi sto coricando nel mio letto- però non dormo
la notte questi occhi si chiudono per la stanchezza
il sonno non viene è il cervello che non si riposa
attacca a pensare volta e rivolta fino a trovare
la speranza dell’indomani.
da Nicola Lo Bianco, Lamento ragionato sulla tomba di Falcone, ed. Coppola Di Girolamo